Il 27 gennaio di ogni anno in Germania, fin dal 1996, si celebra la Giornata ufficiale delle vittime del nazismo; e dal 2005, sulla base di una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la stessa data rappresenta per noi italiani il Giorno della Memoria, in cui si commemora il genocidio degli ebrei d’Europa.

La scelta della data non è casuale: il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa, guidate dal generale Kurockin, entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz, nella Polonia meridionale, e vi trovarono ancora in vita circa 7000 prigionieri abbandonati lì a morire dopo la fuga precipitosa delle SS. Non era il primo lager liberato dai russi, ma secondo gli storici è quello dove è stato ucciso il più alto numero di detenuti, tanto da divenire il simbolo tragico più conosciuto al mondo della follia nazista.

Inoltre, Auschwitz faceva parte di un sistema integrato di campi, che comprendeva anche Monowitz e Birkenau, dove la macchina di morte progettata dalle SS funzionava con la massima efficacia: i prigionieri non erano soltanto ebrei, ma anche dissidenti politici, prostitute, omosessuali, slavi di etnia Rom o Sinti, malati mentali (i cosiddetti “asociali”), insomma, tutti quegli individui che, per un motivo o l’altro, l’ideologia nazista considerava indegni di vivere. A differenza di altri luoghi, come Sobibor, Belzec, Chelmo o Treblinka, campi di sterminio a cui erano destinate le persone più deboli, da eliminare immediatamente tramite gassazione, a Auschwitz c’erano seppur minime probabilità di restare vivi per qualche settimana o mese, anche se in condizioni terribili: si trattava infatti di un campo di concentramento, dove i prigionieri lavoravano. È questo il senso della scritta che campeggiava sopra il cancello di ingresso e dileggiava coloro che vi erano condotti: “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi, una frase ripresa da un romanzo dello scrittore Lorenz Diefenbach e usata per la prima volta a Dachau nel 1933.

I prigionieri producevano binari per le ferrovie o materiale bellico, spaccavano pietre delle cave, oppure lavoravano per le industrie tedesche; una di queste era la I.G. Farben, che, con l’ironia perversa che contraddistingueva i comportamenti all’interno dei lager, commercializzava lo Zyklon B, il gas utilizzato per le camere dove i detenuti venivano uccisi.

Si calcola che tra il 1933 e il 1945 le vittime ebree della Shoah siano state quasi sei milioni: circa i due terzi degli ebrei d’Europa secondo lo storico Raul Hilberg. Ma si arriva a più del doppio contando anche gli indesiderabili, uccisi perché ritenuti un pericolo per quel processo di “arianizzazione” che doveva trasformare la “razza” tedesca nel popolo geneticamente più puro d’Europa. Il Giorno della Memoria è dedicato anche a loro: ed è più che altro un monito a non dimenticare rivolto alle generazioni che non sono state protagoniste e testimoni di questi eventi terribili.

In questi anni, in cui il revisionismo storico sembra rappresentare una tentazione forte per qualcuno, la voce delle vittime deve levarsi ancora più forte, perché il loro sacrificio non sia stato del tutto vano.

Stefania Berti

Comments are closed.